Concorso Versi per l’Anima 2023 – Opere vincitrici

Sezione Prosa

La deriva di folli ombre  

Daniela Conforti

C’era una volta, in un piccolo paese della Toscana, una bambina di nome Susanna, che tutti schernivano chiamandola Susanna tutta panna.

Ebbene sì, vorrei proprio raccontare la storia di quella bambina.

Erano gli anni ’60 quando ancora il cristianesimo considerava la disabilità come una punizione e un bambino “diverso” era sicuramente frutto di qualche peccato.

Naturalmente la colpa ricadeva sulla donna…

La mamma di Susanna ha vissuto sulla propria pelle la colpa e l’umiliazione di aver dato la vita a una bambina “menomata”.

E poi era anche una ragazza madre, una scostumata.

Susanna era molto vivace… correva da una parte all’altra della piazzetta adiacente la propria abitazione emettendo grida senza senso, girando su sé stessa e sorridendo al suo mondo immaginario.

«Sssss, sss…risto detto…ohi chelo anda su utti!»

Il tono della sua voce cambiava in continuazione come se recitasse una commedia teatrale dove interpretava vari personaggi… ora con voce grossa, ora con grida stridule, ora con urla di terrore.

Quando si accorgeva che la stavamo guardando, iniziava a gesticolare e finiva per picchiarsi violentemente con le mani sul viso e sulla testa con colpi fortissimi.

Solo la mamma riusciva a calmarla.

In questi momenti noi bambine e bambini eravamo spaventati da quegli strani comportamenti e ci allontanavamo dalla piazzetta.

«Andiamo a giocare altrove!» gridava qualcuno di noi.

Un giorno Chiara ci raccontò che sua nonna Adelina le aveva spiegato perché Susanna era così: quella poveraccia era posseduta dal demonio!

Tutto era iniziato quando Susanna era ancora molto piccola.

Una domenica mattina, mentre con la mamma partecipava alla Santa Messa, iniziò a manifestare un malessere strano: si agitò piangendo e gridò cose sconclusionate nel silenzio assoluto che la circondava.

Fu da quel momento che per Susanna e i suoi cari iniziò l’emarginazione da parte di molti abitanti del paese che si scansavano perché era “La famiglia della matta indemoniata!”.

«Sssshhh….» le fece il prete, ma lei continuò sputando in terra saliva bianca.

Da subito il parroco si interessò della bambina facendole fare una benedizione da un sacerdote esorcista.

Nei giorni successivi era impaurita, si nascondeva contro il muro bisbigliando e cantando a bassa voce qualcosa che sapeva di una lenta nenia.

«Overa Anna ei ola esuno tivole, overo more!»

Anch’io, ricordo, ero intimorita, ma non tanto dalle reazioni di Susanna, quanto dalla storia raccontata da Adelina.

Non mi andava di credere a quelle brutte cose che raccontavano sul suo conto.

Fu così che chiesi alla mia mamma, la quale mi tranquillizzò, rassicurandomi che mi sarei potuta avvicinare senza timore alla piccola Susanna.

«Non è figlia di Satana o del peccato come dicono» mi sussurrò.

In realtà Susanna era affetta da un tumore al cervello e questo provocava in lei cambiamenti nel comportamento, atteggiamenti che i compaesani scambiavano per possessione demoniaca.

Questo però l’abbiamo saputo solo dopo dal medico del paese.

Non era certo una situazione migliore, ma, chissà perché, mi sentii sollevata e liberata da un grosso peso.

Un pomeriggio, passando davanti al giardino di mia zia, raccolsi tre piccole viole mammole, che il giorno prima non avevo notato.

“Va beh dai, ci provo!” dissi dentro di me e al vento caldo di primavera.

Emozionata e intimorita, sotto gli occhi increduli dei bambini e delle bambine che già si trovavano in piazzetta, mi avvicinai piano piano a Susanna e le porsi da lontano le tre viole.

Avvicinandosi, non mi guardava pur guardandomi, accennò un sorriso che forse non era neanche per me e con uno scatto repentino mi strappò di mano le piccole viole.

Le avvicinò più volte al naso, poi come al solito iniziò a girarsi intorno e sfarfallando con le mani le fece volare.

«Alle alle che olano su su in chelo…» gridò

Fui felice di quel gesto inaspettato e, anche se apparentemente non era cambiato nulla, da quel giorno Susanna mi donava sempre un suo sorriso.

…forse…

Motivazione: La diversità è solo un’altra condizione di vita e non una colpa, come fino a non molto anni fa era considerata anche nella nostra Toscana. Susanna, bambina vivace, scomposta, e dall’eloquio inappropriato a causa di una terribile malattia come verrà scoperto a posteriori, è schivata dagli altri in quanto additata dal parroco come indemoniata. La protagonista del racconto, al contrario, le si avvicina e con atto solidale le porge tre viole riuscendo, forse, a strapparle un sorriso.

Questo breve, ma grazioso e significativo momento letterario, invita a guardare gli altri con maggiore disponibilità, magari riconoscendoci in loro.

Un piccolo dono, come le tre viole, e al contempo un invito da riporre nel cassetto dei migliori consigli per sentirsi veramente umani.

Trasgredire le regole

Genny Sollazzi

A tratti non aveva coscienza di nulla, bianca, immobile nella sua prigione: un letto d’ospedale.
Solo a volte apriva gli occhi e mi sorrideva lieve.
“Chi sei? “sussurrava.
“Mi chiamo Elena, sono un volontario ospedaliero”.
Li richiudeva ed io le prendevo la mano.
Dopo qualche giorno, smise di chiederlo. Pensai di esserle diventata amica.
Quando era cosciente, mi manifestava spesso la preoccupazione che il cellulare fosse carico.
Lo era, ma mai il suono di una notifica proveniva da quell’apparecchio freddo e lucido.
Chiesi alle infermiere se qualcuno venisse a trovarla. L’unica era la sorella.
Capitai quando sapevo che l’avrei trovata al suo fianco.
Leggevo dolore sincero sul suo volto, incredulità e resa.
“Non è più lei, non la riconosco “. Ascoltai in silenzio quello che volle dirmi, ricordi di loro due adolescenti e complici. Un triste sorriso di rammarico le disegnava le labbra.
“Salvo lei non ha altri parenti?”
“Sì, la figlia. Vive a Londra, ma non la chiama e non risponde da tempo”.
Sentivo amarezza e disprezzo in quelle parole. Puro astio non dissimulato.
“Lo sa che adesso sua mamma è in fin di vita?” “ No”.
Silenzio tra noi.
Non potei trattenermi: “lei ha figli?”
“Si, ho una figlia e tra noi c’è un bellissimo rapporto”.
Capii il non detto e rimasi a guardare le lacrime che le rigavano il volto asciugarsi inermi davanti al dolore.
Tornai più volte a visitare la signora S. quando credevo di trovarla sola.
Sempre la stessa preoccupazione che il telefono fosse acceso.
Il volontario ha solo licenza di donare, non può indagare sulla vita e sulla salute del paziente, lo sapevo bene, ma non bastò a fermarmi.
“Come si chiama tua figlia?” le domandai in un soffio all’orecchio.
Il volto assunse un’espressione infinitamente dolce.
“Azzurra”.
Chiuse gli occhi e io cercai il contatto nel suo telefono.
Dal mio composi un messaggio.
“Non ci conosciamo e ti chiedo profondamente scusa per questo gesto spontaneo che non so trattenere e che potrebbe esseri sgradito. Tutti i giorni, stringo una morbida mano bianca in un letto d’ospedale. Appartiene ad una donna esile e dolce. Sulle sue labbra ho letto preoccupazione per un micio di nome Rio e per la carica del suo telefono. Credo aspetti una chiamata prima di partire verso l’azzurro di cui ti ha colorata. Ci saranno state nuvole che vi hanno allontanate, ma sarei felice che tu le dessi la libertà di volar via serena. Se puoi. Se vuoi. Elena”.
Dopo due giorni, quando feci per entrare nella sua stanza, vidi accanto al letto la sagoma di una giovane donna. Le spalle sussultavano. La sua mano raccoglieva quella bianco perla della signora S. che teneva gli occhi aperti su uno spazio di cielo.
Feci qualche passo indietro e uscii senza che nessuno si accorgesse della mia presenza non più necessaria.
Tornai nella stanza dei volontari a togliermi il camice. In silenzio, con gioia, allagavo il mio cuore di lacrime dolci. Rimasi appoggiata alla porta, stringendomi le braccia al corpo. Finalmente sentivo caldo.
Il corso di formazione per i nuovi volontari sarebbe iniziato a breve. Scrivendo la mia testimonianza per i futuri aspiranti vergai queste righe:
“Al malato servono semi di umanità che tra medicinali, flebo e cure di protocollo si perdono. L’empatia è una dote imprescindibile per l’operato del volontario. Provate a chiedervi: “cosa vorrei io, se mi trovassi disteso tra quelle candide, gelide lenzuola? Cosa mi scalderebbe il cuore?”.
Non scrissi altro, a nessuno avrei potuto confessare cosa avevo fatto.
Non vedo e non sento mia figlia da tempo immemorabile, non per mia volontà.
È stato estremamente facile per me leggere nel cuore della signora S., lo sarebbe per qualsiasi madre scevra da egoismi e conflitti familiari.
Sono arrivata appena in tempo. Lei fece il suo volo pochissimi giorni dopo, avendo finalmente le ali e l’energia per sostenere il viaggio: il volto sorridente di una figlia racchiuso nel cuore e la mano ancora lievemente calda e morbida contro ogni scientifico rigor mortis.

Motivazione: Una malata grave vive il suo difficile stato in ospedale assistita solo da una volontaria e dalle sporadiche visite di una sorella. Contravvenendo alle regole questa volontaria viene a conoscenza dell’esistenza di una figlia della degente e riesce a portarla al letto della madre che può così spegnersi, dopo poco, con maggiore serenità.

Un bel racconto impregnato di sensibilità e umanità che risulta un monito a non rifuggire la sofferenza che ci circonda e, al contrario, a prestare ascolto e attenzione a chi patisce, perché siamo tutti simili nelle nostre individuali peculiarità.

Una notte, un professore, due occhi muti

Chiara Schirripa Spagnolo

Finalmente arrivato! Scendo dal treno e mi avvio all’uscita della stazione. Cammino con soddisfazione: sono primario e professore universitario e posso esserne fiero. Mentre mi muovo nella ressa, penso divertito ai vari modi in cui le persone possano riferirsi a me: dottor, medico, professore, primario. Oggi la conferenza è andata bene, domani farò lezione in università quindi ora andrò a riposare subito dato che è già notte.
Metto la mano in tasca per cercare lo smartphone. Tasca destra vuota. Tasca sinistra vuota. Strano. Tasche posteriori vuote. Non ci posso credere! Ricontrollo. Niente smartphone, niente portafoglio, niente chiavi né di casa né della macchina. L’astio mi sale dentro lo sguardo con cui scruto i movimenti degli individui che si muovono svelti nella stazione: mi paiono tutti infidi. Ognuno potrebbe avere nascosti sotto il giubbotto le mie chiavi, il mio smartphone, il mio portafoglio. Maledetti!
Calma, calma, professore. Sei capace di non perdere la ragione. Che fare? Vado dalla polizia a denunciare. Mi incammino a passo deciso. L’aria è fredda, le strade buie e semideserte, comincia a cadere qualche goccia di pioggia. Svolto a destra e imbocco una via che di giorno percorro spesso. La conosco bene, c’è un albero col tronco bucato all’inizio e una panchina dipinta di rosa in fondo; circa a metà, un po’ nascosti, ci sono dei vecchi portici. Di solito lì sotto ci sono dei cartoni, d’inverno qualche coperta. Tutti elementi che ormai fanno parte del paesaggio. Mentre percorro quella via, mi accorgo di qualcosa di diverso rispetto al solito: sotto quei portici c’è qualcuno.
Lo intravedo nell’ombra grazie ai residui della luce di un lampione che si spingono fino a lì. Mi avvicino. È seduto. Mi avvicino ancora. Anzi è seduta. È una donna. Non me l’aspettavo. Si gira, mi vede, ha occhi enormi, sbarrati. Ho l’impressione che io l’abbia spaventata e che vorrebbe scappare, ma non si muove, forse non riesce, forse non ha dove andare, forse sa che la raggiungerei subito. Continua a fissarmi. Ha capelli scuri raccolti in una treccia. Non c’è un buon odore. Mi sento strano. La guardo dritta negli occhi. Ha come una nebbia che le avvolge lo sguardo, come un velo che le dà un’espressione alterata, non nitida; mi fissa, ma è come se facesse fatica, come se non volesse. Una macchina di passaggio ci invade con la luce dei suoi fanali e d’un tratto dietro quel velo riesco a vedere qualcosa che mi colpisce e mi travolge: quel colore, quel verde…
È successo alcuni anni fa. Eravamo fidanzati, poi c’era stata l’offerta di lavoro che aspettavo. Non ci avevo pensato su. Per me quel lavoro era fondamentale, sarei diventato importante. Lei aveva i suoi problemi, non avevo tempo di starle accanto. Decisi in fretta e la lasciai. Non ne avevo saputo più nulla.
Mi siedo quasi accanto a lei, sfiorando il suo cartone sporco. Provo a chiederle se sta lì ogni notte, se ha da mangiare, ma lei non risponde nulla, assolutamente nulla. Sembra un misto tra una statua e un fantasma.
Forse in questo momento potrei piangere. Ma non mi vengono lacrime. Le dico che lei è una donna e probabilmente piange, invece io no, ma è fisiologico che noi uomini piangiamo molto meno, quasi mai. E poi c’è chi piange e chi fa piangere… se no il gioco resta a metà… E mi chiedo subito come io abbia fatto a dirle una cosa del genere.
Fino a circa un’ora fa ero un primario, professore, medico, dottore, di ritorno da una conferenza e pronto a far lezione in università l’indomani. Ora sono seduto in strada senza portafoglio né smartphone, senza chiavi né di una casa né di una macchina. Sono sempre io? Sono seduto accanto a lei, le parlo e lei non risponde. Mi fissa e basta.
È tutto così ridicolo. Un po’ commuovente, un po’ insensato. La notte è un momento strano, succedono cose che nessuno vede, cose che il giorno farà dimenticare. Domani recupererò tutti i miei titoli. Ma questi occhi, verdi, annebbiati e muti come farò a dimenticarli?

Motivazione: Una notte, in una stazione ferroviaria, un professore universitario si accorge di aver smarrito tutto ciò che accerta la sua fortunata esistenza: documenti, denaro, chiavi varie, smartphone. Vagando, dopo, smarrito e incerto, s’imbatte in una clocharde in cui riconosce un amore svanito nel tempo. Sedendole accanto e cercando invano di comunicare con lei comincia a porsi domande esiziali.

Un racconto prezioso e percorso da felici suggestioni pirandelliane che sembra indurre, con tatto e cautela, tutti i lettori a riflettere sui valori e sul senso del peregrinare collettivo.

Figlia Donna Madre

Francesca Salcioli

Camminava con lo sguardo basso per paura che qualcuno carpisse il suo segreto.
Era sicura che le si leggessero in faccia le sfumature della vergogna.
Era abituata a vergognarsi, una posizione comoda occupata fin da bambina.
Un modo per salvarsi e sfuggire.
La vergogna, lo scudo oltre cui non mostrava altro.
La vergogna, inizio e fine di tutto.
La vergogna l’aveva salvata tante volte tranne che da sua madre.
Sua madre.
Succedeva sempre così ogni volta che mangiavano insieme.
Era tutto in quei bocconi che sapeva solo divorare.
Li faceva scomparire nel più breve tempo possibile con l’illusione che se lo avesse fatto velocemente non avrebbe sentito tutto ciò che le procuravano.
Illusa credeva di ingurgitare e far scomparire tutto.
Negli anni il cibo da digerire era sempre di più e tutto pigiato in quel piccolo stomaco non ci stava.
Non entrava il formaggio insieme alla frustrazione, la carne con i giudizi, il pane con il disagio, il dolce insieme all’inadeguatezza.
Una tavola fatta di tentativi di zittire bocche e saziare mancanze.
Camminava a testa bassa per paura che qualcuno notasse i suoi occhi lucidi.

Mangia!
Non mi va!
Mangia anche se non ti va, devi finire tutto!
Non mi piace!
È lo stesso, mangia!

Allo stesso modo in cui ingurgitava sporco ricercava in quei bocconi tutto ciò che le era mancato.
Ascolto, contatto, carezze, comprensione.
Ingurgitava ma il boccone giusto non c’era mai.
C’era sempre quella madre che aveva tanti stati d’animo, castrante e svilente.
C’era una bambina che aveva imparato ad anticipare per vederla sorridere, non farla arrabbiare, non essere incolpata.
Quella figlia aveva tentato negli anni di essere vista, ascoltata, compresa.
Aveva desiderato tanto camminare a fianco di sua madre.
Crescendo si era interrogata sugli errori, sul perché sua madre le delegittimasse ogni suo pensiero.
Quella bambina, diventata donna non credeva mai in ciò che sentiva, non riusciva a disbrogliare i suoi sentimenti.
Aveva cercato un modo per difendersi, si era ribellata, aveva urlato, rinfacciato.
Aveva tentato invano di mantenere le distanze fisiche ma era inutile perché la potenza della presenza assente di sua madre era nelle viscere.
Camminava a testa bassa per paura che qualcuno notasse il suo volto affaticato dallo sforzo.
Quella madre che non riusciva a digerire, tantomeno ingoiare, aveva imparato a vomitarla.
Ed è così che iniziava una lotta con sé stessa, tra il voler trattenere e liberarsi di tutto.
Non poteva scegliere cosa tenere e cosa eliminare, così si liberava di tutto.
Si inginocchiava davanti al wc, in segno di penitenza e richiesta di perdono, una posizione umiliante e scomoda. Bastava poco, indice e medio all’imbocco della gola, le prime volte era più difficile poi il corpo imparò da solo. In poche spinte usciva tutto, rabbia, solitudine, insoddisfazione, ingiustizia.
All’improvviso lo stomaco era leggero, il cuore svuotato e il tutto veniva riempito da fiumi di lacrime e singhiozzi perché ancora una volta, disperatamente aveva cercato tra quelle forchettate l’unico boccone che non avrebbe mai ricevuto.
Voleva mangiare autenticità e si ingozzava di illusioni.
L’aveva capita quella madre.
Aveva capito che era vittima quanto lei di un macigno generazionale fatto di anelli a catena che correvano indietro di decenni.
Non poteva salvarla, forse non poteva salvare sé stessa ma avrebbe fatto di tutto per spezzare la catena per chi fosse arrivato dopo di lei.

Motivazione: La descrizione potente del male, a volte davvero terribile, che colpisce e ha colpito troppe adolescenti e giovani donne: l’auto distruzione del corpo che non sa più reggere il peso dell’anima . Il cibo che sostiene il corpo stesso è considerato un nemico , ingurgitato con rabbia, eliminato con sollievo “perché il boccone capace di compensare carezze mancate e incomprensioni non arriva mai”.  Infine, la figlia, ormai donna, cerca di capire quella madre, e vede che aveva anche lei subito. E anche se  non potrà salvarla e salvarsi, forse potrà fare in modo di spezzare la catena che le lega,per chi verrà dopo di lei. Una realtà da non ignorare, una speranza di salvare chi cade in questo vortice.

La fotografia

Fabio Granchi

“Lo avete visto?” mi sembrava di essere uno sceriffo e che sulla foto ci fosse scritto “Wanted”. Lui non era rientrato e al cellulare non rispondeva. Alle quattro di notte mi ero vestita alla meglio, una vestaglia di cotone bleu, le pantafole color cammello, i capelli arruffati. Sembravo una pazza. Lo ero. Sono uscita nell’aria fresca settembrina. Ho camminato fino davanti all’anonimo portoncino. E’ qui che “lavora” anche se mi dice che va a caricare le auto sulle navi.”Devo sostituire un collega che si sente male, faccio il turno di notte” Scuse, lo so, altro che turni di lavoro, passa le notti al tavolo verde a rovinare l’esistenza sua e nostra, della famiglia intendo.”Vieni via con noi mamma” mi dicono i due figli ormai adulti che un giorno hanno deciso di andarsene da casa, stanchi di assistere ai nostri continui litigi sempre per il solito motivo, soldi gettati al vento.” Tu sei la vera vittima di questa storia”. Ma che volete farci , è stato il mio uomo dolce e premuroso. Solo io posso saperlo. Bussai. Il body guard socchiuse la porta e io gli sventolai un cinquantino, un passepartout buono per ogni occasione. Non si stupì del mio aspetto, credo che ne vedesse ogni notte di peggiori. Fra nuvole di fumo e odore dolciastro mi aggiravo con la mano tesa a mostrare la foto mendicando una risposta: “E’ Sandro, un bel cinquantenne…si nota subito…è qui?” Non potevano sentirmi, giocavano a chemin de fer, ciclopi con un occhio solo, l’azzardo, giganti dalla voce possente a scagliare soldi come macigni sul tavolo verde. “Ho paura che voglia fare una pazzia..dov’è?” Deliravo. Il bodyguard mi prese per un braccio e mi sbattè fuori. La notte all’improvviso fredda mi assalì. Tornai a casa e mi gettai ancora vestita sul letto, supina con le mani a stringermi sul petto la foto “dell’altro” Sandro, quello col quale ho sempre condiviso la passione per i viaggi e il teatro. L’ultima volta è stato un pomeriggio di circa sei mesi fa quando siamo andati a teatro a vedere Uno nessuno centomila. Entrammo. Sandro era in uno stato d’ansia evidente, forse per la tematica pirandelliana pensai. Si volle sedere in penultima fila ma subito dopo si alzò dicendo di andare in bagno. Uscì ma dalla tenda discosta lo vidi fermarsi nel foyer e estrarre il cellulare, il corpo ingobbito in avanti, la cintola dell’impermeabile slacciata, fuori Marzo pioveva leggero e fitto, a ciondolare oscillando a seconda delle sue mosse a scatti sempre più nervosi, il cellulare all’orecchio e nella mano sinistra il cappello morbido. All’improvviso lo accartocciò, lo portò alle labbra a soffocare un grido. In quel momento dalla terza fila si alzò un uomo ben vestito. Stava telefonando anche lui e si incamminò verso una seconda uscita. Cercai gli occhiali, nella mia borsa ci sono sempre più cose che in quella di Mary Poppins e quando riuscii a trovarli l’uomo era sparito. L’attenzione ritornò a Sandro nel foyer. Stava supplicando l’uomo elegante, il busto eretto a sfidare mio marito, un topolino impaurito . Le luci lampeggiarono, la commedia aveva inizio. Sandro tornò appena in tempo. L’aprirsi del sipario mi impedì di chiedere spiegazioni. La sera discutemmo su quanto visto, avevo ritrovato il mio Sandro ma era una meteora. Guardo la foto, mi chiedo se lo amo ormai solo per pietà, è un uomo perso e io con lui. Ogni volta che scendo le scale mi auguro di non incontrare qualcuno di quei vicini che possono aver sentito le sue urla, le sedie sbattute per terra senza motivo. Sandro ha tolto il suo cognome dal campanello di casa, ci sono brutte persone che lo cercano, non risponde più neanche al telefono. Rispondo io. “Pronto?”. Silenzio, minaccia muta. Soffoco, mi chiedo perchè ripeto che va tutto bene. Con la menzogna rassicuro tutti perfino me stessa. Devo decidermi, uscire dalle sabbie mobili della commiserazione. Straccio la fotografia, il passato. Vivere il presente è combattere per una nuova immagine, il futuro, con lui o senza di lui, e tornare a respirare. Clic. 

Motivazione: La foto di un uomo, di un marito che per l’ennesima volta non torna,  che da una vita fa stare in ansia per il vizio del gioco, e spesso diventa violento con le parole e le cose, che tutti, perfino i figli, le consigliano di lasciare a se stesso. E lei resiste, solo lei sa chi è lui, come una pazza lo cerca in luoghi pericolosi. Finché si accorge che non si può tornare indietro, lui è braccato dai creditori. Non risponde al telefono. Allora tocca a lei, deve uscire dalla menzogna di credere che andrà tutto bene. Straccia la fotografia. Serve tornare a respirare anche senza di lui. E un “clic” chiude una storia di sopraffazione. Molte donne tardano troppo a decidersi per quel “clic”.

Poesia

Apocalisse

Veronica Pace

Fiumi di lacrime inondano
Le guance aride
Spengendo il calore
Di un sorriso.
Gli occhi allagati
Vedono nebbia
E i pensieri plumbei
Si dispongono
Agglomerati
Per la tempesta in arrivo.
Franano le certezze
Su cui ti sei aggrappato
Precipitando
In un vuoto abissale.
Il cuore singhiozza
E il corpo vacilla
In una sinuosa
Danza sismica.
E come un uragano di vita
Un sibilo di vento
Accorre lesto
Dalla profondità polmonare
Per risvegliare
L’anima smarrita.

Motivazione: Attraverso rapide pennellate, in un linguaggio denso e carico di vissuti emotivi e affettivi, la poesia descrive una situazione interiore di disperazione e di vuoto, che si manifesta in una serie di immagini di sempre maggiore intensità, un climax ascendente che raggiunge l’acme nell’ultima strofa, liberando finalmente l’energia necessaria a risvegliare l’anima smarrita. Il linguaggio poetico si avvale di metafore oltreché  di una sorta di esasperazione formale e di un’accelerazione dinamica, che compaiono fin dal titolo e che bene esprimono  il tormento interiore.

Sete di libertà – per Masha Amini

Adriana Panetta

Io, giovane donna
ho sfidato la legge
che mi vuole invisibile
e, nell’estasi di un sogno
ho strappato questo velo
che opprime le mie speranze

esultavo felice, con i capelli
bagnati da gocce di libertà
la mia bocca non più prigioniera
baciava ogni filo d’erba
e la brezza del vento
mi portava il profumo
di terre lontane
dove provare piacere
per queste semplici azioni
non è reato, dove puoi
senza morirne
lasciare che il sole
ti baci la pelle, dove puoi….

piccole aquile
aprite le ali
il vostro coraggio
cambierà la storia

Motivazione: La poesia è incentrata sulla figura di Masha Amini, che fu arrestata  a Teheran  per la mancata osservanza dell’obbligo del velo, morì in circostanze sospette e divenne  simbolo della violenza esercitata contro le donne dallo Stato iraniano. La poetessa cede a lei la  voce, perché con le sue parole trovi espressione il desiderio di libertà e di vita, fino all’esortazione finale rivolta a tutte coloro che con coraggio contrastano la violenza e compiono in tal modo un gesto che cambierà la storia. Una bella poesia che affronta un tema fondamentale con pregnanza e profondità.

Le parole tra noi

Benedetto Maggio

Le parole che dette tra noi
trascorrevano liete ruscellando
erano vita – sai – la vita. Nel silenzio
ora mi cantano, nel buio scintillano
nell’umore ombroso dell’ultimo sogno
zampillano
come in quest’oggi che si desta lustro
sulla pioggia di ieri
e già effonde l’odore dei soffritti
tra i sopiti sentori dei caffè.
Mi senti ancora com’io sento te.
in questo mattino fiorito?
Ho una finestra spalancata, smisurato respiro
sulla tregua dei venti
e da un ignoto mare immenso abbraccio
d’indicibile pace cullata
di prolungati crescere e di brevi
rompersi d’onda.
Se tu vedessi! Sfavilla
nei cavi delle foglie adesso e trema
la luce altissima
in ogni calice o corolla ridono
le lacrime stillate nella notte;
e il cane fiuta intenso l’aria
e il geranio è felice.

Motivazione: Le parole nella lirica acquistano freschezza, ruscellano, zampillano, come acqua pura, come pioggia; e poi ancora si fanno respiro, e dopo luce. Una poesia sinestetica per affermare il potere delle parole dette e rimaste a germogliare nel cuore e nella mente. Nella quotidianità il poeta riesce a coglierne lo scintillio che rafforza i legami e sa far fiorire la vita, la speranza. Lo stesso accade nelle parole che il poeta ha saputo trovare per esprimersi: un linguaggio chiaro e al tempo stesso armonico e intenso  che regala sollievo e felicità.

Ricomincio

Cinzia Medda

Un tremore intenso mi invade,
ogni rumore forte è un sussulto.
Un buco nero,
non ho più niente e nessuno.
Devastazione
disorientamento
dolore
disperazione.
Le bombe si susseguono senza tregua.
Io tra i feriti, in questo posto dove manca tutto.
Urla mi entrano nella testa.
Ho paura.
Mi volto e tra i calcinacci
il pianto disperato
di un bimbo di pochi mesi insanguinato,
anche lui rimasto solo.
Scendono lacrime,
tendo la mano
e le mie dita toccano le sue.
Si incontrano i nostri sguardi.
Dalla mia bocca
esce una promessa:
non sarai più solo…
Ricomincio.
Lo farò con te.

Motivazione: L’eco di una guerra, che sembra inarrestabile, accompagna le nostre vite da troppo tempo.  Impotenti, non vorremmo quasi leggere un’opera che parla di questo, ma non possiamo certo farlo. 

Qui, una vittima, ferita e piena di paura, vaga fra le macerie di un bombardamento, senza speranza. Ma c’è il forte pianto di un piccolo bimbo, anche lui ferito e senza più nessuno, e la vita riprende senso. E’ ancora l’amore a fare il miracolo dentro chi è nato per l’amore. “Ricomincio da zero, con lui, per lui”.

Out of dark

Fabio Granchi

Sono fuori
e tu c’avresti mai creduto?
Respiro il vento i colori
sono fuori ancora non ci credi?
Il mio cuore di cartapesta raccoglieva
grandine e fulmini di parole.
“Sei un uomo finito sei un uomo perduto
il vizio ti ucciderà non hai alcuna speranza”
Il mio cuore di cartapesta si accartocciava
disperato e fradicio di dolore.
Mi maledivo ero fra quelli senza speranza.
E ora sono fuori non vedi la mia ombra
che il sole allunga sul muro e la strada?
Esisto sono fuori dal buio
ho scelto sono vivo
io ci credo ho vinto
e tu c’avresti mai creduto?

Motivazione: “Ci avresti mai creduto?” E’ il grido di un uomo considerato finito, respinto nel suo buio e solo accusato di non poter mai più entrare nella normalità. “Ci avresti mai creduto? Sono fuori dal buio, grazie a chi ha creduto in me”.

Tweets

Il risveglio

Alessandro Civitella

La quiete del pensiero è l’attimo di felicità che il cuore gode alle prime luci dell’alba.

Motivazione: Ogni mattino una luce lieve e soffusa bagna gli occhi e i corpi: paure e angosce ancora dormono, altre possibilità di vita ci abitano e ci animano. La speranza di esistere felici e quieti, senza spine che si conficcano nella nostra carne e nella mente, ci pervade e ci inebria. Forse solo un attimo… bellissimo!

Su una matita

Daniela Conforti

Su una matita di stelle risplende la tua vita mancata.

Motivazione: Nell’ombra che a volte ti avvolge speri di disegnare un’esistenza diversa facendo brillare i tuoi sogni calpestati. Anche la quotidianità uccide ed opprime, limita e ferisce. Crei allora nuovi sentieri da percorrere per vivere ciò che si è perso nel tempo deciso da altri o ti è stato negato dal vento contrario. Basta una semplice matita per far parlare le stelle, invisibili o nascoste, che dentro noi tutti splendono.

Scrivere

Chiara Schirripa Spagnolo

Scrivere è l’operazione chirurgia che, senza anestesia, asporta frammenti di mente e di cuore per reincarnarli in parole immortali.

Motivazione: La scrittura come rivelazione di mondi intimi e personali, psichici e sensoriali, emotivi e sociali. “Scrivere è percepire il continuo ed inesauribile mormorio dell’essere” asseriva Maurice Blanchot in un suo scritto sullo spazio letterario. Raccontare e raccontarsi è far vivere corpi, silenzi, attese, sguardi, ferite, speranze, fatti, sentimenti… lasciare impronte e tracce di esistenze vere o possibili. Le parole possono divenire, fra gioia e dolore, respiri e momenti di vita che non temono il passare del tempo.

Il meraviglioso mondo nel giardino di Matteo

Gruppo NSV

Al Parco urbano di Cosma e Damiano di Pisa

Oggi è una bellissima giornata di sole, al giardino di Matteo si sta bene, prendiamo l’aria buona e respiriamo. (Laura Baglini)


Nei vasi fiori piccolinnell’aria volano rondini
al sole un gruppo di amici. (Jessica Venga)


Una giornata bellissima, io sto veramente bene al sole. (Mario Coli)

Un sole bellissimo ammiriamo. (Leonardo Altamore)

Come è bello il fogliame intorno all’acquario dei tanti pesci nel giardino di Matteo. (Manola Poli Fantozzi)

In mezzo a tutto quel verde,
l’acqua della vasca riflette la luce del sole. (Cristian Di Colo)


Le farfalle volano guardando l’ombra dell’albero amore è cuore. (Dario Ciardelli)

L’acqua scorre piano piano un pesce nuota tra i riflessi dei papiri. (Letizia Iacobbe)


Il giallo del sole sorge nel cielo azzurro nuvole bianche si muovono volando insieme alle rondini sui prati fioriti. (Pietro Di Siena)


Tanti fiori, bianco, viola, giallo, rosa, arancione, rosso. (Elena Berretta)


Aria e sole nei colori dei fiori. (Antonella Riu)


Pennelli, colori, fogli dipingiamo ammirando la natura. (Fausto San Filippo)


Fiori in omaggio sotto il sole di maggio. (Flavia Stefano)


Crocchi, fiori viola in mezzo al verde si specchiano nel giallo dei narcisi. (Massimiliano Biagini)


Camelie bianche sbocciano tra il verde delle foglie. (Alessia Minopoli)


Allegria fuori nel giardino di Matteo. (Marco Riposati)


E’ una bella giornata di sole, c’è tante rondini nel cielo. (Antonio Bufalini)


Risate nell’aria Sole sui campi, E’ tempo d’estate. (Benedetta Martinelli)


Come è bello svegliarsi al mattino in una casa in campagna. (Carlo Buffoni)


Tre rondini in cielo sfrecciano veloci le nubi cantano. (Giorgio Fornaca)


Mi sono divertito al giardino di Matteo. (Matteo Citti)


Il mondo sarebbe bello se ci fosse la pace. (Sara Gozzi)

Motivazione: Metti un bel gruppo di ragazzi e ragazze in una mattina di sole a primavera, in un giardino: guardano, respirano, osservano, riposano i sensi e lo spirito, tanto da esclamare alla fine “Il mondo sarebbe bello se ci fosse la pace!” Ciascuno di loro scrive una notazione diversa su quella limpida mattinata: c’è chi osserva i pesci nell’acquario tra i riflessi dei papiri, chi nota le rondini, chi le farfalle, chi vede i colori dei fiori, chi  è abbagliato dalla luce del sole. Ne nasce un testo collettivo, corale, che è un inno alla natura, all’amicizia, alla  capacità di godere la gioia del momento per coltivare speranza e serenità. Grazie a questi scrittori e a queste scrittrici, così attenti e generosi nel comunicare le loro emozioni. Grazie per questa lezione di vita!